Educare al benessere

Puoi sopportare l’errore di tuo figlio?

Con che occhi hai guardato l’ultima pagella di tuo figlio? Che cosa hai provato di fronte ai suoi voti? Cosa hai pensato di te mentre li leggevi?

Per quanto il rendimento scolastico non sia l’unica cosa che rende orgogliosi o delusi i genitori, di certo rappresenta un ambito in cui è molto facile comprendere in che modo ci poniamo rispetto ai traguardi dei nostri figli: spesso un buon voto ci rende felici, quasi come se fossimo stati noi ad ottenerlo, mentre una difficoltà scolastica rischia di diventare motivo di vergogna, insoddisfazione, se non addirittura rabbia. E molto spesso il motivo è proprio che viviamo il successo e il fallimento dei figli come se fossero i nostri. In tal modo i figli rischiano di vedersi caricare sulle spalle l’obbligo di essere perfetti e di non sbagliare mai, per evitare che i genitori si trovino a dover affrontare un fallimento che percepiscono come personale.

La realtà è che i bambini, così come i ragazzi (e noi adulti), hanno tutto il diritto di sbagliare, di commettere errori e fallire, senza sentire di essere una delusione per i propri genitori.

Come spiegavo in questo articolo tempo fa, fallire è l’unico modo per imparare – e quindi per crescere -, il che significa che il fallimento non determina il nostro valore, così come non determina neanche quello delle persone che ci stanno accanto nella crescita. Perché se per imparare un bambino ha bisogno di sbagliare, quell’errore è un passaggio naturale e non la prova che genitori e insegnanti sono incapaci. Tutt’al più è la prova che quel bambino si sente libero di sperimentarsi senza troppe pressioni addosso. E non c’è regalo più grande che possiamo fare ai nostri bambini e ai nostri ragazzi!

La domanda che dobbiamo porci come adulti accanto a chi cresce è proprio questa: quanto mi sento minacciato nel mio valore personale dall’errore di mio figlio? Sento che se lui sbaglia io valgo di meno? Penso che un suo errore faccia di me un genitore meno capace?

Per quanto da adulto posso sentirmi responsabile di quello che un minore fa, i risultati delle azioni di una persona sono responsabilità sua non mia, non parlano delle mie capacità, bensì delle sue. Restiamo sull’esempio della scuola: se mio figlio va bene o va male a scuola non è conseguenza delle mie capacità, bensì delle sue competenze e della sua voglia di impegnarsi. Io posso essere accanto ai miei figli ogni pomeriggio per sostenerli nei compiti, ma non posso sostituirmi a loro: questo significa che i risultati scolastici sono loro, non miei, e come tali parlano di loro non di me.

Il rischio quando faccio equivalere il mio valore o le mie capacità genitoriali ai risultati immediati di un bambino è che mi ritrovi a pretendere da lui una forma di perfezione che diventa niente di meno che una prigione. Ed in tal modo rischio di portarlo a sentire che non sarà mai abbastanza bravo da soddisfare le mie richieste. Inoltre gli impedisco di essere fino in fondo se stesso, di comprendere chi è e chi vuole diventare, qualcosa a cui spesso si arriva solo in seguito a vari tentativi ed errori. Perché la prospettiva temporale è di primaria importanza quando si accompagna la crescita di un altro essere umano.

E’ evidente che come genitori abbiamo il dovere di proteggere i nostri figli da errori che possano dimostrarsi pericolosi e che possano causare danni reali ed effettivi. Allo stesso tempo abbiamo il dovere di essere accanto ai nostri figli quando devono rialzarsi dopo una caduta, pronti a tifare per loro in ogni nuovo sforzo per raggiungere il risultato desiderato. Ma più di ogni altra cosa abbiamo il dovere di aiutarli a vivere l’errore come un evento che fa parte della natura stessa della crescita e dell’apprendimento, senza farglielo pesare o giudicarli incapaci di fare bene qualcosa se non ci riescono al primo tentativo.

Possiamo spronarli a provare e riprovare davanti ad un errore, possiamo dimostrare che crediamo in loro e sottolineare ogni piccolo progresso e possiamo raccontare dei nostri insuccessi, per far comprendere che non sono la fine del mondo. Soprattutto possiamo e dobbiamo sentire che un loro errore non è sinonimo del nostro fallimento.

I figli non devono essere perfetti per farci sentire validi. Non devono ripercorrere le nostre orme né devono raggiungere i risultati per noi irraggiungibili per sentire di andare bene ai nostri occhi. Devono essere liberi di capire come acquisire abilità e consapevolezze che anche noi abbiamo conquistato a suon di cadute… proprio come succede per imparare ad andare in bicicletta!

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