#femminismopedagogico

Parole ed azioni sessiste

Per quanto la società sia cambiata e alle donne vengano riconosciuti oggi molti più diritti rispetto a qualche anno fa, permane purtroppo di fondo una cultura patriarcale, maschilista e sessista che si esprime attraverso pregiudizi e stereotipi che ancora associamo a donne e uomini, ma anche attraverso le parole che quotidianamente usiamo o attraverso alcuni atteggiamenti che gli uomini – anche inconsapevolmente – assumono.

Ritengo importante ragionare su entrambi per renderli consapevoli e comprendere in che modo modificare – o “semplicemente” smettere di accettare – ciò che troppo spesso viene considerato normale.

Sessismo nel linguaggio

“Però, certo, anche nel lessico noi donne un po’ discriminate lo siamo. Quel filino di discriminazione io, donna, lo avverto magari solo io, ma un po’ lo avverto, un po’ lo percepisco. Però, per fortuna, sono soltanto parole. Certo, se le parole fossero la traduzione dei pensieri, allora sarebbe grave, sarebbe proprio un incubo fin da piccoli.

L’ironia di Paola Cortellesi ci introduce ad un aspetto della discriminazione di genere che fin troppo spesso è sottovalutato, ossia il fatto che nella lingua italiana la rappresentazione della donna sia fortemente discriminata e discriminante rispetto a quella dell’uomo.

Tanto per iniziare ci sono parole, come quelle che indicano specifiche professioni, che al femminile non esistono, non vengono usate o vengono accolte con disprezzo, e alla base vi è un retaggio molto chiaro: fino a poco tempo fa le donne non potevano assumere determinati incarichi e funzioni e, per quanto oggi lo facciano, certi loro ruoli appaiono non ancora pienamente riconosciuti.

Spesso il mancato utilizzo della versione femminile di alcune parole viene sminuito facendo riferimento a questioni legate ad una presunta cacofonicità di alcune parole “nuove”, ma la questione di fondo è un’altra. Il linguaggio infatti possiede una funzione di costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: non usare il genere femminile per i titoli professionali e i ruoli istituzionali equivale a dire che se una donna ricopre quel ruolo lo fa quasi “per sbaglio”, perché per natura non le toccherebbe. Con una certa lentezza l’italiano moderno si sta adeguando ai cambiamenti sociali, lo stesso purtroppo non si può dire della mentalità di molti italiani.

Chiaramente non basterebbe usare termini declinati al femminile per superare il sessismo nel linguaggio. Purtroppo esso passa anche (anzi, soprattutto) da altro: le offese a madri, figlie e sorelle quando due uomini litigano, l’allusione al ciclo quando una donna si mostra arrabbiata, l’augurio di essere stuprata a quante la pensano diversamente dal bullo di turno, frasi tipo «ma che ne sai tu che sei una donna», «se l’è cercata», «da quanto tempo non fai sesso», e così via. Sono espressioni a cui ormai siamo talmente abituati che perfino alcune donne le usano nei confronti di altre donne, senza riuscire a leggerne la pericolosità, e che invece dovrebbero essere eliminate dai nostri discorsi quotidiani se vogliamo che cambi la mentalità che dietro esse si cela. Perché no, non possiamo semplicemente «farci una risata» quando un uomo si permette di parlare di una donna in certi termini, dal momento che non sta solo scherzando, ma sta esprimendo un pensiero che è – ahimè – ancora dominante nella nostra società, contribuendo a trasformarlo in realtà.

Lo ha mostrato magistralmente, con quella pungente ironia che sa descrivere alla perfezione la verità dei fatti, Paola Cortellesi nel monologo recitato per la premiazione dei David di Donatello nel 2018. La citazione riportata sopra prosegue, infatti, mettendo a nudo il potere del linguaggio e le conseguenze che in base a quel potere può avere un linguaggio sessista:

Certo, se le parole fossero la traduzione dei pensieri, allora sarebbe grave, sarebbe proprio un incubo fin da piccoli. Eh, sì. All’asilo, un bambino maschio potrebbe iniziare a maturare l’idea che le bambine siano meno importanti di lui. Da ragazzo potrebbe crescere nell’equivoco che le ragazze in qualche modo siano di sua proprietà. Da adulto potrebbe – è solo un’ipotesi! – pensare sia giusto che le sue colleghe vengano pagate meno e, a quel punto, non gli sembrerebbe grave neppure offenderle, deriderle, toccarle, palpeggiarle, come si fa con la frutta matura o per controllare le mucche da latte. Se fosse così potrebbe anche diventare pericoloso. Una donna adulta, o anche giovanissima, potrebbe essere aggredita, picchiata, sfregiata dall’uomo che l’ama. Uno che l’ama talmente tanto da pensare che lei e anche la sua vita sono roba sua, roba sua, e quindi può farne quello che vuole. Per fortuna, sono soltanto parole, solo parole, per carità!

Comportamenti ed atteggiamenti sessisti

Negli ultimi anni in ambito anglosassone sono nate alcune definizioni che tentano di immortalare attraverso le parole alcuni di quegli atteggiamenti indicati dalla Cortellesi, atteggiamenti messi in atto da alcuni uomini – non tutti, per fortuna! – che in varia misura hanno fatto propria l’idea patriarcale di una presunta superiorità maschile e che sulla base di questa idea si rapportano al resto del mondo, specie quello femminile. Sono comportamenti che in qualche modo tendono a rimettere “al loro posto” le donne, specie quelle che con il loro modo di stare al mondo mettono in discussione la visione sessista e maschilista di cui quegli uomini sono intrisi.

Un primo atteggiamento riscontrabile è il cosiddetto manspreading, ossia l’appropriazione da parte degli uomini dello spazio fisico, anche di quello appartenente alle donne. Ne abbiamo un esempio quando in metro o in autobus un uomo si siede con le gambe allargate, occupando anche parte del posto accanto al suo. Questo accade in misura maggiore se accanto è seduta una donna, perché di fronte a una simile invasione è piuttosto comune per noi ritirarci nello spazio che rimane a nostra disposizione.

Un secondo comportamento è il manterrupting, che riguarda invece la tendenza degli uomini ad interrompere di più il proprio interlocutore, specie se si tratta di una donna, occupando più spazio verbale di quello che spetterebbe loro. Ciò è reso possibile dal fatto che non sempre di fronte a tali interruzioni le donne sono in grado di bloccare il discorso per esprimere le proprie opinioni, perché il più delle volte ci viene insegnato ad ascoltare senza intervenire e a credere che un uomo ne sappia più di noi (il che non significa che le donne non interrompano mai i loro interlocutori, è chiaro, ma che mediamente capita più spesso agli uomini nei confronti delle donne).

Infine abbiamo l’atteggiamento forse più noto, il mansplaining, che può essere definito come l’eccesso di fiducia in sé stessi, combinato spesso con l’ignoranza, che spinge alcuni uomini a spiegare alle donne cose che queste ultime conoscono anche meglio di loro, con la pretesa che le donne si fermino ad ascoltarli per imparare da loro. In tal modo gli uomini minimizzano le conoscenze femminili, ponendosi arrogantemente al di sopra delle donne, incuranti della realtà dei fatti. Nel suo testo Gli uomini mi spiegano le cose (Ponte alla Grazie, 2017), Rebecca Solnit afferma:

Gli uomini (alcuni uomini) spiegano le cose, a me come ad altre donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando. Ogni donna sa a cosa mi riferisco: a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che gli impedisce di essere udite quando osano parlare, che schiaccia le più giovani nel silenzio, insegnandogli, così come fanno le molestie per strada, che questo mondo non appartiene a loro. Per noi è un addestramento all’insicurezza e all’autolimitazione, mentre gli uomini tengono in esercizio la propria immotivata tracotanza.

Oltre i limiti del sessismo

Il messaggio che parole ed azioni sessiste vogliono trasmettere è proprio questo: il mondo – l’intero mondo – non è un luogo per le donne, le quali farebbero meglio a restare in quei posti limitati che sono loro consentiti, senza volersi allargare a ciò che da sempre è proprio degli uomini.

Per superare simili limitazioni è necessario, allora, essere consapevoli di tale messaggio e della sua origine, così da imparare a contrastarlo, con educazione e fermezza, senza temere di chiedere qualcosa che non ci spetta… perché la realtà è che ci spetta, eccome! Ne ho avuto l’esempio qualche giorno fa in metro, quando un uomo accanto a me si stava reggendo ai sostegni che scendono dal soffitto con entrambe le braccia, impedendo a me di alzare la testa. La metro era così piena che io non potevo spostarmi e lui avrebbe senza problemi potuto reggersi con un solo braccio oppure stringere le braccia per non darmi fastidio, ma non si è minimamente posto il problema ed è caduto dalle nuvole quando gli ho fatto notare che mi creava disagio. Forse in passato avrei cercato di non dare “fastidio” e sarei rimasta in silenzio, ma oggi so che non sarebbe stato giusto per me: ho il diritto di stare con la testa dritta e chi mi sta accanto ha il dovere di non occupare il mio spazio personale.

Non occorre essere aggressivi per far valere i propri diritti, l’importante è possedere la fermezza che nasce dalla consapevolezza che quei diritti si possiedono e nessuno può calpestarli, con azioni o parole.

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