#femminismopedagogico

Chiedimi se sono triste

Studiare le questioni di genere mi ha reso fermamente convinta di come gli stereotipi di genere rappresentino delle gabbie tanto per le donne quanto per gli uomini e di come sia necessario che gli uomini siano consapevoli di come la cultura patriarcale li limiti, così da poter agire per liberarsene. Del resto è ciò a cui miro con la mia concezione del femminismo pedagogico (se vuoi approfondire leggi qui), che ha tra i suoi scopi quello di educarci al rispetto della nostra ed altrui unicità (anche dal punto di vista emotivo).

Purtroppo spesso in passato – e forse ancora oggi – l’educazione, anche quando impartita con le migliori intenzioni, ci voleva rispondenti ed omologati ad un modello ben preciso di uomo e di donna.

Anche in campo emotivo.

Per questo credo sia importante dedicare una tappa del mio viaggio tra le emozioni all’esplorazione delle convinzioni errate con cui sono state cresciute generazioni e generazioni di uomini e donne. A cominciare da quelle sulla tristezza.

Non piangere, mica sei una femminuccia!

Chissà a quanti bambini (rigorosamente maschi) è stata ripetuta questa frase. Chissà a quanti di loro, in questo modo, è stato impedito di esprimere il proprio stato d’animo e di sviluppare una parte di sé.

Perché al di là dell’immagine poco lusinghiera del genere femminile trasmessa dalla frase in questione (e ci sarebbe molto da scrivere a tal proposito!), vietare di piangere equivale a dire che non c’è posto per la tristezza, che quell’emozione non è importante, che i motivi per cui uno è arrivato a sperimentarla non sono da prendere in considerazione. In sostanza che soffrire in alcune situazioni – dolorose – è sbagliato.

L’idea di fondo su cui si poggia il divieto tutto maschile di essere tristi è la convinzione che l’uomo debba mostrarsi sempre forte, qualunque situazione si trovi a fronteggiare. E, dal momento che la sofferenza viene spesso letta come espressione di debolezza e fragilità, essa è stata bandita dall’universo maschile. Solo che la tristezza è un’emozione primaria, universale, che ci parla di quello che sta capitando attorno a noi e ci aiuta a comprendere come affrontarlo. Educando i maschi a non essere “deboli” si è finito con l’educarli a non entrare più in contatti con alcune delle proprie emozioni, a rimuovere delle parti di sé, percepite come pericolose. Ma dal momento che l’emozione è fatta anche di reazioni fisiologiche – e quelle non possono essere imbrigliate! -, una volta che è stato reso impossibile l’accesso alla tristezza come chiave di lettura dei messaggi corporei ed esterni, a quelle reazioni è stato dato un significato differente, scollegato dalla realtà che aveva dato loro origine, chiamando in causa emozioni diverse (molto spesso la rabbia). Tali emozioni di copertura sono definite in Analisi Transazionale emozioni parassite e permettono di ottenere l’approvazione delle figure genitoriali, attraverso la sostituzione delle emozioni autentiche. Ma a che prezzo?

uomo seduto con la testa fra le mani su sfondo nero

E’ evidente che cancellare la tristezza (così come qualsiasi altra emozione autentica) impedisce di mettere in atto i comportamenti che permetterebbero di superarla, elaborando la mancanza o la perdita da cui è scaturita. Ecco spiegati allora comportamenti che non hanno senso logico nelle situazioni in cui sono messi in atto. Ecco spiegata la fatica di affrontare situazioni emotivamente complicate, ma anche la perfetta rispondenza ad uno stereotipo ormai collaudato.

Per uscire da quello stereotipo – e soprattutto per permettere agli uomini di sviluppare un sé autentico – è necessario cambiare rotta e cominciare ad educare all’accettazione di tutte le proprie emozioni. Bisogna cominciare a trasmettere con chiarezza e convinzione il messaggio che la tristezza non è debolezza, bensì la risposta naturale ad una mancanza, ad una perdita. e che la sensibilità non equivale a fragilità, bensì alla preziosa capacità di entrare in contatto con ogni parte di sé, dando a ciascuna la possibilità di esprimersi e di avere un impatto sul comportamento da mettere in atto.

E bisogna insegnare a rispettare chi queste cose già sa farle!

La tristezza è donna

Chiaramente la situazione cambia completamente quando si parla di donne. Perché alle donne non solo è consentito piangere o manifestare in altro modo la propria sofferenza, ma in un certo senso esse sono invitate a mostrarsi tristi anche quando in realtà ciò che stanno sperimentando ha tutt’altro sapore!

Se da un lato, infatti, stando agli stereotipi di genere non rappresenta un problema che la donna si mostri debole e fragile, entrando in contatto con il proprio dolore e cercando per esso conforto, dall’altro non è ammissibile che la donna sperimenti e manifesti emozioni come la rabbia. Motivo per cui viene incentivato l’utilizzo della tristezza come emozione parassita “al femminile”, a copertura di stati d’animo ritenuti inadeguati ed inopportuni, quando non addirittura pericolosi (e anche qui si potrebbero scrivere libri su “per chi” sarebbero pericolosi).

Certamente il permesso di entrare in contatto con la tristezza è prezioso e non va sottovalutato, né cancellato nel nome di una ricerca spasmodica di ottenere maggiori riconoscimenti alla forza e al valore sociale delle donne. Essere in contatto con tutto quello che si vive, avere la capacità di leggere ed interpretare correttamente quello che si vive e avere tutti gli strumenti necessari ad affrontarlo in modo adeguato è tutto ciò che serve per essere davvero “forti”! Quindi ben venga la tristezza!

Ma ben vengano anche tutte le altre emozioni, tutti gli stati d’animo e i sentimenti, anche quelli che ci hanno insegnato a nascondere e contenere. Non perché sia giusto perdere il controllo, ma perché è attingendo all’intera gamma delle nostre emozioni, e modulandole attraverso il filtro dei nostri valori, che possiamo muoverci nel mondo. A patto che quelle emozioni siano autentiche, cioè adeguate a ciò che ci sta accadendo, è non usate per coprire quello che è vietato manifestare.

Anche perché c’è un altro aspetto da non trascurare nell’analisi di cosa è permesso e cosa è vietato, in relazione all’immagine di sé che ciò comporta. Se una donna può essere triste e quindi ha il permesso di essere fragile, allora ha bisogno di qualcuno che le stia accanto e la sostenga, di qualcuno che la protegga e la conforti… e chi meglio dell’uomo forte di cui sopra? Permettere alle donne di sperimentare il proprio dolore e in qualche caso costringerle a tradurre in sofferenza altri stati d’animo è, in altre parole, il metodo che la cultura patriarcale ha trovato per far sentire le donne sempre bisognose della presenza di un uomo al loro fianco. Non che tale presenza sia inutile o vada evitata a priori, sia chiaro! Il punto è che rischia di essere una presenza che ingabbia nei soliti stereotipi e tarpa le ali, impedendo di manifestarsi per ciò che autenticamente si è e si vive.

ragazza seduta su un molo con le braccia attorno alle gambe e la testa poggiata sulle ginocchia

Educazione emotiva

Per liberarci degli stereotipi di genere è necessario un imponente lavoro educativo, non mi stancherò mai di ripeterlo. E sono fermamente convinta che l’educazione emotiva sia un tassello imprescindibile di questo lavoro.

Insegnare a riconoscere le emozioni, a comprendere cosa ci comunicano e come gestirle è essenziale per dar forma a persone autentiche, oneste con se stesse prima ancora che con gli altri, complete perché non necessitano di escludere nessuna parte di sé. Persone che sapranno vivere le relazioni in modo sano e che daranno al mondo un volto più bello!

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