#femminismopedagogico

La cultura dello stupro

«Dietro lo stupro c’è quasi sempre il bisogno di umiliare la donna, la volontà di lasciare una traccia di sé su quest’essere che si continua a considerare inferiore»
(Michela Marzano)

Il 21% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito una violenza di tipo sessuale. Un dato agghiacciante, che però è solo la punta dell’iceberg della cosiddetta cultura dello stupro (in inglese rape culture), ossia di un sistema sociale e culturale in cui vari atteggiamenti – che culminano con la violenza sessuale vera e propria – vengono normalizzati e giustificati, con il risultato che gli uomini hanno ormai imparato che la violenza sessuale contro le donne – nelle sue varie forme – è tutto sommato accettabile e non comporta gravi conseguenze giuridiche o sociali.

Possiamo definire la cultura dello stupro come un insieme di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne, una violenza che include qualsiasi tipo di profanazione e violazione del corpo femminile, dalle battute sessiste alla colpevolizzazione della vittima, dal catcalling (molestie verbali provenienti da sconosciuti che attraverso apprezzamenti indesiderati oggettivizzano il corpo femminile) al palpeggiamento, fino allo stupro vero e proprio, in un continuum di violenza minacciata che va appunto dai commenti sessuali alle molestie fisiche.

Vari elementi sociali vanno ad alimentare questo modo di rapportarsi dell’uomo alla donna, come ad esempio:

  • l’uso di un linguaggio che oggettifica e sessualizza il corpo delle donne, il quale a sua volta deriva dall’immagine che del corpo delle donne viene dato nei mass media;
  • le battute sessiste e i rape jokes;
  • lo slutshaming (giudicare le donne in base alla loro condotta sessuale e a come si relazionano con il proprio corpo);
  • il victim-blaming (colpevolizzare e far provare vergogna alla vittima invece che al suo aggressore);
  • la mancanza di informazioni su che cosa effettivamente siano lo stupro e la violenza sessuale;
  • l’assenza di educazione sessuale, affettiva e al consenso nelle scuole.

A questo va aggiunto il ruolo dei social, nei quali sempre più dilaga la volenza contro le donne: basti pensare a come ogni volta che una donna esprime pensieri divergenti rispetto alla massa, venga attaccata augurandole di essere stuprata. C’è un clima di odio profondo nei confronti delle donne che mostrano la propria libertà e la propria autonomia di pensiero, odio che si riversa nel linguaggio e colpisce laddove fa più male, in un rapporto malato tra i sessi e in una delle espressioni più violente che di questo rapporto possa esistere.

Stupro, ma non solo

Per quanto lo stupro sia l’evento violento che richiama maggiore attenzione (eccezion fatta per i femminicidi), sono diversi i suoi precursori che permettono di comprendere meglio cosa significhi respirare la cultura dello stupro, a partire da quelli che si annidano nel linguaggio.

Le battute sessiste, così come la mancata reazione ad esse – perché chi assiste senza intervenire è colpevole, al pari di chi parla o agisce -, il body shaming (ovvero l’offendere qualcuno per il suo aspetto), il catcalling (commenti sessualizzanti rivolti di solito alle donne per strada) e il victim blaming (cioè la colpevolizzazione della vittima) sono tutte modalità di rivolgersi verbalmente alle donne senza rispettarle. Se gli uomini imparano che è socialmente accettato agire in questo modo nei confronti delle donne, ben presto passano dalle parole ai fatti, palpeggiandole, imponendo contatti non desiderati, usando loro foto e video senza avere il consenso, fino ad arrivare a sabotare pratiche contraccettive e usare minacce e costrizioni per avere rapporti sessuali.

Il tutto nell’idea che l’aggressività sessuale maschile sia normale (e forse anche apprezzata), andando così a creare un clima di terrorismo fisico ed emotivo contro le donne, che vivono nella costante paura di poter subire una qualche forma di violenza di tipo sessuale ogni volta che escono di casa. E la cosa peggiore è che tutto questo non viene considerato strano, al punto che si insegna alla donne come difendersi da possibili stupratori, ma non si pensa ad insegnare agli uomini ad evitare di diventare quegli stupratori!

Consenso ma non solo

Dal momento che lo stupro è qualsiasi azione a sfondo sessuale (non solo la penetrazione) che viene imposta a una persona senza un’espressione chiara e libera della volontà di partecipare al rapporto sessuale, ciò che andrebbe fatto è insegnare agli uomini che non hanno diritti atavici su ogni donna che gli passa accanto e che devono imparare a chiedere il consenso prima di qualsiasi atto sessuale. Insegnare loro che il consenso va chiesto sempre, anche in un rapporto di coppia rodato, che esso è reversibile (si può cambiare idea in qualsiasi momento) e che non deve mai essere forzato. Chiaramente devono imparare che una persona non può dare il suo consenso se ha fatto uso di alcol o droghe, si trova in stato di incoscienza o sta dormendo, così come che il silenzio non significa automaticamente assenso. Anche quando il “Sì” è ottenuto usando la coercizione o la manipolazione psicologica siamo davanti a un caso di stupro e non importa chi commette la violenza: può essere il fidanzato, il marito, un amico, un ragazzo appena conosciuto o uno sconosciuto, non cambia la definizione!

Per combattere la cultura dello stupro bisogna insegnare ai giovani (e non solo) che il sesso senza consenso non è un diritto. Ma bisogna anche smettere di colpevolizzare le vittime, invece di puntare il dito contro coloro che commettono violenza, perché in tal modo si minimizza e sminuisce lo stupro, finendo con il non considerarlo un reato come gli altri. Spesso infatti è la persona che ha subito la violenza ad essere messa sotto processo e ad essere colpevolizzata per l’accaduto e questo victim-blaming è una prerogativa della violenza di genere: nessuno accuserebbe mai una persona che stava facendo jogging nel parco di essersela cercata se degli estranei l’avesse fermata e picchiata senza motivo. Quando si tratta di una qualsiasi forma di violenza di genere, invece, i confini tra vittima e carnefice si fanno più confusi, come se non fosse plausibile che una donna non abbia fatto nulla per provocare la violenza maschile.

La realtà è che non esiste giustificazione alla violenza sessuale, non c’è nulla che una donna possa o non possa fare per provocarla ed evitarla, dal momento che dipende esclusivamente dalla volontà di chi la commette. Eppure in Italia – stando ai dati Istat del 2019 – il 39,3% della popolazione pensa che una donna sarebbe in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo volesse; il 23,9% è convinto che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire; il 15,1%, ritiene che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile dell’accaduto; il 7,2% sostiene che di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono “no” ma in realtà intendono “sì” e il 6,2% dichiara che “le donne serie” non vengono violentate.

Le radici della cultura dello stupro

Perché è così difficile liberarci della cultura dello stupro?

Credo sia perché possiede, a ben guardare, una duplice e solida radice. In primo luogo essa nasce all’interno di in una società in cui – come già accennato – la violenza è considerata sexy e la sessualità è violenta, per cui la violenza sessuale sulle donne è normalizzata e giustificata.

Come affermato da Rebecca Solnit nel suo libro Gli uomini mi spiegano le cose, essa «viene perpetuata attraverso l’uso di un linguaggio misogino, la riduzione del corpo femminile a oggetto e la glamourizzazione della violenza sessuale, costruendo in questo modo una società che non ha alcun rispetto per i diritti e la sicurezza delle donne». Dalla visione della donna come oggetto erotico a perenne disposizione del desiderio maschile allo stupro il passo, ahimè, è breve: dal momento che il corpo delle donne è considerato dominio maschile lo stupro è la rappresentazione plastica e brutale di questo dominio opprimente dell’uomo sulla donna. Del resto agli uomini non viene insegnato che non devono aggredire sessualmente, mentre alle donne si chiede di imparare a difendersi, di evitare di trovarsi in situazioni pericolose o addirittura di non provocare.

Ma c’è altro: la cultura dello stupro attecchisce laddove si reputa “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne, quel processo continuo di intimidazione maschile che porta le donne ad avere sempre paura e a relazionarsi con gli altri sulla base di tale paura. Perché è di questo che si tratta: raramente uno stupro nasce da un desiderio sessuale incontrollabile, molto più spesso invece prende vita dal desiderio di “rimettere al proprio posto” una certa donna o le donne in generale. La minaccia dello stupro si trasforma così in un modo per imporre un limite (di fatti molte donne e ragazze limitano i propri comportamenti a causa del pericolo di essere stuprate), per impedire alle donne di acquisire l’autonomia che desiderano. Un modo per ricordare loro che non possono appropriarsi di spazi maschili, che devono ridimensionare le proprie aspirazioni. Un modo per punire le ambizioni. Perché una donna che subisce violenza o che viene minacciata spesso sceglie di scomparire, di non farsi più vedere e sentire, spesso non riesce più a rialzarsi. Sostanzialmente la cultura dello stupro non è altro che un’ulteriore arma nelle mani del patriarcato per mantenere il potere sulle donne.

Come mai ancora oggi tutto questo riesce ad attecchire? Ancora una volta possiamo indicare la ragione nell’educazione che uomini e donne ricevono, in particolare quella che passa da alcuni romanzi e film (ma anche da moltissime canzoni) che trasmettono una visione falsata dei rapporti i sessi, oltre all’idea in base alla quale se una donna dice “no” tutto sommato vuole dire di “sì”, motivo per cui l’uomo ha il dovere di “sedurla”. Ma c’è anche l’assenza di una forma di educazione fondamentale, quella al rispetto: rispetto per il corpo, la volontà, il valore della persona. E ancora una volta solo lavorando sull’educazione ad una relazionalità sana e rispettosa dell’altro possiamo far cambiare qualcosa.

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