#femminismopedagogico

Musica e donne

Qualcosa come 21-22 anni fa mi trovavo con un gruppo di coetanei a parlare di musica e messaggi contenuti nella canzoni e ricordo molto bene come l’unico adulto presente tra noi mi definì molto razionale perché, laddove non approvavo il testo della canzone, non riuscivo ad apprezzarla nel suo complesso, non importava quanto fosse orecchiabile. Non ho memoria della canzone in questione, è passato davvero troppo tempo, ma so che quel commento mi è rimasto nella mente, insieme alla convinzione che per quanto potessi apparire “bacchettona” e “fuori dal coro”, non ero disposta a rinunciare a questa capacità critica, perché se è vero che la musica veicola sempre dei messaggi, io avevo ben chiaro che volevo riservare la mia approvazione a messaggi che potessi condividere.

Per fortuna a distanza di tanti anni non mi sento più sola a fare analisi di questo genere, soprattutto per quel che riguarda canzoni che veicolano messaggi violenti, razzisti o sessisti. E, con buona pace di chi grida ad un’eccessiva censura del politicamente corretto, direi che era davvero ora che si cominciasse a ragionare in questo modo! Perché le canzoni sono parte della cultura popolare ed hanno il potere di influenzare il pensiero di chi le ascolta e, senza prestare troppa attenzione alle parole, le canta e le ricanta. Per non parlare del fatto di quanto sia inaccettabile che qualcuno abbia fatto o ancora faccia soldi inneggiando alla violenza.

Vediamo allora insieme in che modo le canzoni parlano delle donne e come fin troppo spesso si facciano portavoce di una cultura misogina e maschilista (in questo articolo – a differenza dei precedenti in tema di musica – eviterò volontariamente di indicare la maggior parte degli autori e non inserirò i link alle canzoni il cui messaggio reputo deleterio, perché credo che se ne possa fare tranquillamente a meno).

Testi e note dal patriarcato

All’inizio di quest’anno è uscito un libro dal titolo Il maschilismo orecchiabile, in cui l’autore, Riccardo Burgazzi, analizza 170 canzoni italiane scritte tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Zero. Ne emerge una panoramica davvero avvilente: ammetto che non conoscevo tutte le canzoni presentate – per questioni di età – e forse mi ero illusa che qualche anno prima della mia nascita si parlasse della donna in modo meno violento di quello che accade ultimamente. Invece ho dovuto ricredermi.

Al di là del fatto che la donna passi dall’essere idealizzata come un angelo (ferma al suo posto, senza pretese, perfettamente calata nel ruolo voluto dal patriarcato, pronta a soddisfare ogni esigenza maschile) all’essere tratteggiata come una poco di buono (perché prova ad ammaliare o perché vuole allontanarsi da un uomo che non ama più o magari perché denuncia la violenza subita), ci sono canzoni che raccontano dell’amore inteso come possesso, di azioni degne di uno stalker o addirittura che inneggiano agli stupri. Ma c’è di peggio: esiste un brano che narra di come un uomo abbia ucciso una donna, come se fosse la cosa più normale del mondo, così come ci sono brano che parlano della volontà di ucciderne una per motivi futili.

Na matina ch’era l’urtimo dell’anno me dice co’ la faccia indifferente: “Me so stufata nun ne famo gnente e tireme su la lampo der vestito…” E te lo vojo di’ che so’ stato io e so’ quattr’anni che me tengo ‘sto segreto. E te lo vojo di’ ma nun lo fa sape’, nun lo di’ a nessuno tiettelo pe’ te. Tu nun ce crederai nun ciò più visto l‘ho presa ar collo e nun me so’ fermato che quann’è annata a tera senza fiato… Ner cielo da ‘no squarcio er sole è uscito e io la sotterravo co’ ‘ste mano attento a nun sporcamme sur vestito.

Lella, 1971

Questa piaga oggi si chiama femminicidio e la società pare iniziare a muoversi per evitare che dilaghi ulteriormente, ma come è possibile che qualche decennio fa un simile discorso potesse essere tranquillamente accettato in un testo? Magari non c’era la sensibilità odierna, non si usavano i termini che usiamo oggi, ma si stava parlando pur sempre di un reato! Eppure la censura, così attenta a eliminare minimi riferimenti al sesso, non ha mai ritenuto opportuno intervenire in tali casi.

Tutto questo ci parla di una cultura patriarcale ben radicata, perché ogni canzone è figlia del suo tempo e della cultura di cui è intriso chi la scrive, così come chi l’ascolta. E a ben guardare evidenzia forse la colpa più grande degli autori: la musica ha infatti tutte le carte in regola per farsi portavoce di una cultura diversa, più rispettosa ed inclusiva, ma purtroppo nel panorama italiano sono pochi gli artisti che hanno osato avventurarsi per questo sentiero.

In definitiva quello che si scopre leggendo il libro di Burgazzi è che non serve andare a cercare tra il rap e il trap odierni per scovare testi intrisi di maschilismo (lì se ne trovano a profusione, è vero): anche la musica più tradizionale, persino la musica d’autore, ha avuto modo di dar voce ad una cultura che ha sempre dato della donna un’immagine tutt’altro che positiva. E non bisogna lasciarsi ingannare da chi la dipinge – si badi bene in modo stereotipato – bella ed immacolata: è un modo per relegarci al ruolo di soprammobili o per negarci quelle libertà di cui ogni donna dovrebbe poter godere.

“Prima cosa voglio trovare il piatto pronto da mangiare e il bicchiere dove bere. Seconda cosa voglio parlare di tutte le cose che ho da dire (..) donna mia devi ascoltare. Terza cosa quando ho finito subito a letto voglio andare e fra la seta della carne tua mi voglio avvolgere fino a mattina e donna senza più nessun pudore puledra impetuosa ti voglio sentire io dolce e impetuosa ti voglio sentire”

La canzone della terra, 1973

Io non ti voglio, ti pretendo

Ti pretendo, 1979

Se fossi mia io ti legherei con un laccio al cuore che ti faccia male quando te ne vai”

Una rosa blu, 1982

Bella stronza che hai chiamato la volante quella notte e volevi farmi mettere in manette solo perché avevo perso la pazienza… Esci dai tuoi pantaloni mi accontento come un cane degli avanzi. Perché sei bella bella bella. Mi verrebbe da strapparti quei vestiti da puttana e tenerti a gambe aperte finché viene domattina

Bella stronza, 1995

E non ci credo che farai a meno di me (…) Digli che tu eri mia, mia. Digli che tu eri mia

Crepe, 2020

Voci femminili, ma non troppo

Potremmo pensare che un certo modo di vedere la donna fosse (e sia tutt’ora) relegato alle canzoni cantate dagli uomini. Sarebbe bello, anche se non ancora l’optimum, ma purtroppo la realtà è ben diversa! Dal momento che le canzoni interpretate da voci femminili sono molto spesso scritte da menti maschili, il discorso cambia ben poco. Certo magari non abbiamo donne che inneggiano al femminicidio, eppure ci sono state donne che hanno cantato veri e propri inviti ad essere violentate (no, non sto scherzando e nemmeno esagerando, ahimé!).

A guardare oggi certi testi si resta stupefatti e ci si chiede come sia stato possibile accettare di dare la propria voce a qualcosa di simile, ma bisogna ricordare che la cultura ha sempre normalizzato un certo modo di comportarsi nei rapporti uomo-donna, per cui forse non si riusciva a cogliere la gravità di quello che veniva cantato.

Un esempio è il fenomeno – oggi tanto discusso – del catcalling, ossia delle molestie verbali che le donne ricevono in strada: fino a qualche tempo fa certi commenti erano considerati complimenti, oggi sappiamo che se un uomo vuole fare realmente un complimento ad una donna ha a disposizioni modi e vocaboli di altro genere e solitamente non fa affatto piacere esserne oggetto.

E dalle macchine per noi i complimenti del playboy, ma non li sentiamo più se c’è chi non ce li fa più

Quello che le donne non dicono, 1987

Nella stessa canzone è evidente anche come la donna sia presentata come un oggetto a buon mercato, perché basta comprarla con un mazzo di rose per ottenere un sì. Ancora peggiore è forse il ritratto della donna che vorrebbe sottrarsi ad un rapporto che sa essere tossico, ma da cui non riesce a liberarsi. Si evince chiaramente come a dare voce a queste donne sia solo la fantasia maschile: è come se determinati versi, ancor più perché messi in bocca a delle donne, volessero delineare la donna perfetta (perfetta per l’uomo logicamente!), quasi a voler indicare alle ascoltatrici come dovrebbero essere per andare bene.

Troppe volte vorrei dirti “no” e poi ti vedo e tanta forza non ce l’ho. Il mio cuore si ribella a te, ma il mio corpo no. Le mani tue, strumenti su di me, che dirigi da maestro esperto quale sei. E vieni a casa mia, quando vuoi, nelle notti più che mai: dormi qui, te ne vai, sono sempre fatti tuoi, tanto sai che quassù male che ti vada avrai tutta me, se ti andrà per una notte.

Minuetto, 1973

Il problema è forse tutto qui, la visione maschile che si impone come l’unica immaginabile, la voce dell’uomo che finisce per diventare l’unica a cui dare retta, ma sottilmente, fingendo di voler vedere le cose dalla prospettiva di una donna (guarda caso, di solito quella di donne fragili!). Ma come potrebbe un uomo vedere il mondo con gli occhi di una donna? Come potrebbe il “carnefice” comprendere la “vittima”?

Dare voce alle donne (e non solo!)

Per fortuna qualcosa sta cambiando nel panorama musicale italiano (e non solo, anzi forse da noi come sempre l’evoluzione è arrivata con qualche anno di ritardo) e ci sono nuove voci femminili che fanno largo ad idee più moderne su donne, uomini e rapporto tra i sessi. Soprattutto ormai esistono molteplici donne che scrivono da sole i testi per se stesse o per altre cantanti… e si sente!

Adesso si continua a parlare ad esempio di stalking e femminicidio, ma con tutt’altra intenzione rispetto al passato! Se ne parla, infatti, per evidenziare come questi temi siano stati sottovalutati nel tempo e come ancora oggi purtroppo molto spesso le denunce delle donne vengano ampiamente sottovalutate dalle forze dell’ordine. E per quanto non serva a cambiare le cose, una canzone di denuncia ha una sua importanza fondamentale: ci dice che la musica può fare cultura in modo positivo, smuovendo le coscienze, aprendo gli occhi su qualcosa che non siamo costretti ad accettare come dato di fatto immutabile.

La signora del quinto piano fu ritrovata murata nel bagno. Quella lettera di un anno prima, la prova schiacciante lasciata in questura, descriveva con precisione il rituale di sepoltura. Ma non vi era alcuna ragione di avere paura, di avere paura

La signora del quinto piano, 2015

Oggi le canzoni denunciano il mansplaining (la tendenza di alcuni uomini a spiegare alle donne anche cose che queste ultime conoscono molto meglio di loro) e la violenza di genere, invitano le donne a uscire da rapporti tossici e mostrano come anche da sole possano mandare avanti la propria vita e come, proprio da sole, spesso riescano a rifiorire, superando quello che sono state costrette a subire. In questo modo la musica cambia la società, nota dopo nota, insinuando la possibilità che le cose non stiano come ci è stato raccontato per decenni.

E invece pensa nessuna conseguenza, di te so stare senza: non sei necessario alla mia sopravvivenza

Nessuna conseguenza, 2016

Non so quante volte mi abbiano ignorata. Non crediate che mi ignorino perché non ho ragione, perché certamente ho ragione: mi ignorano perché sono una donna.

Femme, 2018

Non merito la tua rabbia, l’innocenza di un errore. Non merito la vergogna, mani che fanno male. Non merito di stare all’ombra, stare zitta e avere paura

Mariè, 2018

L’augurio è che sempre più uomini e donne prestino le loro voci a questi messaggi, agendo dal palco per dar forma ad una società migliore, perché come la musica è stata ieri il risultato di una certa cultura, oggi può anche diventare un mezzo per calciare in un angolo quel modo di vedere la realtà e far spazio a nuove prospettive.

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